Se noi Italiani decidessimo di giocare alla guerra dei campanili, potremmo contendere ai Francesi non solo la paternità delle crêpe, ma anche l’origine di quella festa della Candelora in cui, ogni 2 febbraio, in tutte le cucine di Francia si preparano montagne di crespelle.
Stando alla leggenda, infatti, fu un papa italiano ad avere l’idea di ristorare un gruppo di pellegrini francesi, arrivati a Roma per celebrare la Festa delle Candele, con frittatine di uova e farina. Lo stesso potremmo fare attribuendo a Caterina de’ Medici (sì, signori, sempre lei) non solo l’importazione generica di una crespella, ma addirittura di una specifica ricetta, i ciaffagnoni di Manciano, di cui si dice che la futura regina di Francia fosse particolarmente ghiotta. Potremmo anche accampare qualche diritto sulle cialde, sulle palachinke (le abbiamo anche a Trieste), sulle gaufres (i nostri gofri del Piemonte) e via dicendo, perché ovunque si frughi, nella nostra storia e nella nostra geografia, spuntano sempre ricette del genere.
Il punto è che lo stesso capita nelle storie e nelle geografie di tutti i Paesi della terra: perché se mai esiste un cibo che può essere considerato a pieno titolo patrimonio dell’umanità, sono proprio le cialde e da lì in poi le crêpe, le crespelle e tutte le successive declinazioni sul tema.
Le ragioni di questa diffusione cosi capillare sono da ricercarsi nella semplicità dell’impasto di base, preparato con acqua e con quello che c’era, che fosse la farina di grano nel Mediterraneo, quella di grano saraceno in Bretagna e in Russia, il riso fermentato e i legumi in India e nell’Estremo Oriente, il mais e la tapioca nell’America Latina, in una varietà di ingredienti che è un colpo d’occhio sulle diverse economie di sussistenza e sui sistemi alimentari del mondo. Cibo per il corpo e nutrimento dell’anima, visto che l’origine delle cialde, in ambito europeo, è strettamente legata alle ostie consacrate. La loro presenza è attestata dal V secolo, quando dal pane si passò alla cialda e, da lì, alla cialda decorata, di solito con agnelli pasquali e flagellazioni, a indicare la comunione a quel sacrificio che, ogni volta, si riattualizzava sull’altare. E accanto a queste, ecco le cialde non consacrate, cibo economico per i pellegrini, distribuito in abbondanza nelle tappe dei loro viaggi. Da qui l’abitudine, la familiarità, l’usanza, ponte inevitabile perché si compisse il passaggio dal sacro al profano. Agli stampi devozionali del Medioevo si sostituiscono quelli araldici del Rinascimento, alla mensa degli altari quella dei banchetti, alla devozione trascendentale quell’amore per la vita che trova nel cibo una delle sue espressioni più piene: da quel momento in poi, è tutto un dilagare di preparazioni che, da una matrice comune, prendono strade diverse, differenziandosi nell’aspetto, nei nomi, nei gusti, negli accompagnamenti, tornando poi a ritrovare un punto di unione in quell’essere – allora come ora – cibo di tutti, ricchi e poveri, giovani e vecchi, in ogni parte del mondo.
Tratto da ” Crêpe is the New Black”- i libri dell’MTChallenge, a cura di A. Gennaro, 2016