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La stratificazione sociale della cucina nella Roma antica
Negli appuntamenti precedenti del Calendario con la cucina dell’antica Roma sono emerse alcune peculiarità: Annarita nel 2017  ha parlato dei diversi momenti del pasto e degli ingredienti dominanti ed ha proposto delle focaccine al formaggio citando Catone; il team di Cristina, Fabiola ed Elena nel 2018 ha invece presentato ricette elaborate, a base di pesce, di maiale e di piselli, tipiche della cucina raffinata trasmessaci da Apicio; infine Leila e Manuela nel 2019 hanno spiegato come la cucina dei ricchi tendeva a stupire, modificando i sapori originali degli ingredienti e ce ne hanno dato esempio con tre ricette, sempre apiciane, per una sorta di panzanella, per sardine e per pollo.
Mi piacerebbe questa volta approfondire un aspetto non ancora considerato: non tutti gli abitanti di Roma mangiavano allo stesso modo. Ogni classe sociale poteva permettersi alimenti differenti, mangiava in momenti diversi ed in luoghi differenti. Si tratta quindi di una cucina molto variegata e stratificata, di giunge a noi testimonianza, per quanto riguarda le classi agiate, ovvero i patrizi, uomini di potere, i ricchi ed i liberti arricchiti, principalmente con Apicio, che scriveva solo nel V secolo d.C., ed il banchetto di Trimalcione descritto da Petronio nel I secolo d.C.

Dai dettagli delle opere di poeti e scrittori come Virgilio, Catone, Plinio Ovidio o Marziale deduciamo invece il vitto di contadini e popolani, per molti versi simile a quello dei loro omologhi della Grecia classica. Risultano invece dagli studi storici basati su scavi archeologici, su documenti economici e militari d’epoca, e sulle eredità che troviamo in testi di cucina e di costume decisamente successivi, le abitudini culinarie di schiavi e plebei miseri, di piccoli artigiani e media borghesia commerciale, legionari e gladiatori.

Mente è intuitivo, dunque, inserire i piatti raccontatici dal Calendario negli ultimi due anni tra quelli consumati dalla classe agiata, come si colloca invece la focaccina al formaggio? Proviamo ad indovinare: nella Roma di età Imperiale non solo viveva una congerie incredibile di differenti umanità, ma si cucinava e mangiava in casa (anche se non in tutte) ma anche sui luoghi di lavoro, presso i forni, nelle taverne attorno al foro, durante e dopo spettacoli circensi, nelle strade durante i banchetti offerti dall’imperatore, nelle bancarelle e botteghe del mercato ed anche fuori dai templi dopo i sacrifici religiosi.

Proprio in questo caso si usava il libum, la focaccia al formaggio talmente amata dai Romani che veniva utilizzata anche come dono agli dei durante i riti sacrificali e in occasione dei compitalia, le feste in onore dei lares. Si tratta dunque di un cibo di cui potevano godere tutti quando, dopo i rituali, fuori dal tempio le si distribuiva agli astanti, insieme, a volte, alle carni dell’animale sacrificato, mentre le interiora erano un boccone prelibato bruciato per gli dei o consumato dagli officianti.
Per i più poveri la distribuzione al tempio era l’unica occasione di gustare poca carne ed un pane bianco. Il loro vitto era infatti composto prevalentemente, appunto, pane nero e puls, una sorta di polentina, preparati con miglio, sorgo, segale, castagne o legumi, che accompagnavano con erbe, prevalentemente malva, cipolle e aglio e, in rare occasioni, con sale di recupero delle conserve e con la versione povera del garum fatta con i suoi scarti. Da bere acqua o posca, cioè acqua mischiata ad aceto.

Chi si poteva permettere ogni tanto carne e un po’ di vino erano i piccoli artigiani di città ed i contadini, che allevavano un maiale, del pollame o qualche ovino, e tutti quelli che assistevano agli spettacoli circensi, durante i quali spesso veniva distribuita la carne delle fiere abbattute. I contadini, inoltre, integravano la loro alimentazione quotidiana anche anche con le verdure degli orti ed erbe selvatiche, che consumavano in zuppe a volte profumate con ossa, e poi uova, olive, frutta secca, latte e formaggio sia fresco (una vera rarità per gli altri) che stagionato. Raramente consumavano comunque la carne degli animali allevati, e mai quella di manzo, animale troppo utile
e riverito.

Gli schiavi invece, tranne i servitori più fortunati che ricevevano gli avanzi dei banchetti signorili, vivano di cipolle e bulbi vari, rape, legumi, puls di cereali a basso costo e, raramente, allec (gli scarti delle olive) e posca. Meglio si cibavano invece i gladiatori che, pur essendo sempre schiavi, dovevano mettere massa muscolare. Erano dunque grandi mangiatori di orzo, sia in polentine che in minestre e pani, ed avevano a disposizione frutta secca, fichi e, a volte, le carni degli animali come tori o leoni, uccisi nell’arena.
Il manzo era per la verità raro anche sulle mense dei ricchi, che gli preferivano cacciagione od animali rari come struzzi e pavoni, che del pollo mangiavano solo il codone e che erano gli unici a potersi permettere pane bianco, latte, miele, pesce e formaggi sia freschi che conservati, frutta fresca e, ovviamente, spezie, garum, dolci, vino e olive di prima qualità, oltre a tutti le specialità “di importazione” provenienti da tutto l’impero.

Come i gladiatori, un vitto a base di orzo e semi nobili come frumento e farro lo avevano anche i legionari, che con i cereali facevano farina per puls o gallette, oppure li usavano come merce di scambio durante gli spostamenti delle truppe per procurarsi verdure fresche, pollame, cacciagione o pescato. Ricevevano anche lenticchie, le onnipresenti cipolle, carne secca di maiale, lardo e formaggio stagionato, e come premi speciali salumi, conserve sotto sale e garum.
Se di stanza vicino alla città, frequentavano le taverne come i patrizi, i commercianti ed i viaggiatori, abituati a pranzare per lavoro fuori casa. Lì trovavano vino, servito caldo o freddo in base alla stagione, torte di ceci, focacce dolci e salate, salsicce e spuntini caldi e potevano rifornirsi anche di olio e di acqua fresca.

Per continuare il percorso alla scoperta della cucina dell’antica Roma, visto che già con il Calendario abbiamo gustato piatti delle mense nobili e addirittura un pane da altare, qui ricostruiamo il moretum, una crema di formaggio ed erbe molto diffusa che, nata dal classico pasto contadino di formaggio, erbe e noci, è diventata una golosità da spalmare su pane o gallette anche per i cittadini che riuscivano a procurarsi un pezzo di formaggio duro.
La sua preparazione ci viene raccontata in un poemetto attribuito a Virgilio, ne abbiamo una versione di Ovidio e addirittura Columella nella sua Res rustica ce ne offre quattro varianti!
Eccole tutte, descritte in modo riassuntivo:

1) Nell’Appendix Vergiliana il protagonista Symilo pesta a lungo in un mortaio aglio sbollentato, sale, pecorino duro, sedano, ruta e coriandolo, e poi aggiunge a filo olio e a spruzzi aceto quanto basta per avere un composto morbido con cui poter formare una palla.
2) La versione di Ovidio (Fasti, IV, 367), sia per ingredienti che per consistenza, è molto simile alla virgiliana ma manca l’aceto.
3) La ricetta base di Columella prevede due parti di formaggio fresco e una di pecorino stagionato, pestati con santoreggia, menta, ruta, coriandolo, sedano, erba cipollina, lattuga, rucola, timo, nepitella, mentuccia. Poi ci aggiunge aceto e pepe e ricopre d’olio.

Da qui partono due possibili arricchimenti:
4) Per tre parti di moretum una di noci spellate, pestati insieme di nuovo con poco aceto, pepe, e olio a filo finché il composto è cremoso.
5) Per quattro parti di moretum una di semi di sesamo leggermente tostati, lavorati sempre con poco aceto, pepe ed olio; poi si ricopre d’olio e semi di sesamo interi.
6) L’ultima ricetta di Colunella prevede 6 parti di “formaggio gallico” lavorato con 1 parte di pinoli (o nocciole spellate o mandorle), più erbe fresche (o secche, in mancanza) come menta, mentuccia, origano, maggiorana e timo, con i soliti aceto, pepe ed olio.

Qualsiasi sia la versione preferita, compresa quella che descrivo qui sotto, il moretum è buonissino spalmato su focaccette rustiche ancora calde, su crostini di pane casereccio tostati o per farcire piadine o pani arabi da arrotolare. E chiudo con un link, per chi interessa, ad un approfondimento sul senso del gusto nell’antica Roma, ed un ultimo pensiero tutto dedicato ai Liguri: ma questo moretum pestato non vi ricorda qualcosa, alla lontana?

la cucina dell'antica Roma
MORETUM

per 4-6 persone come snack

200 g di ricotta di pecora
100 g di pecorino grattugiato
2 spicchi di aglio
1 gambo di sedano con le foglie
1 bel mazzetto di coriandolo fresco
1 mazzetto di ruta (io non ce l’ho e uso un mazzetto di rucola più due foglie di cicoria amara)
6 fili di erba cipollina
2 manciate di noci, mandorle e/o nocciole
1 cucchiaio di aceto di vino
4 cucchiai di olio extravergine (un lusso, quello buono, per chi non era un ricco patrizio)
pochissimo pepe (era una spezia costosa)
4-6 fette di pane nero o casereccio per accompagnare

Scottate l’aglio due minuti in acqua bollente e sbucciatelo. Riducete il gambo di sedano a tocchettini e tritate grossolanamente le sue foglie insieme alle altre erbe.
Frullate i due formaggi con l’aglio, il sedano e le erbe fino ad ottenere un composto abbastanza fine e uniformemente verde. Unite l’aceto e poi 3 cucchiai di olio, fino a rendere il composto cremoso. Conservate in frigo.
Sgusciate noci, mandorle e/o nocciole e tritatene grossolanamente un paio per tipo.
Al momento di servire tagliate a bastoncini le fette di pane e tostatele velocemente.
Trasferite il moretum in una ciotola, create con un cucchiaio dei solchi sulla crema e versatevi olio a filo, poi decorate con la frutta secca tritata. Servite con i crostini caldi ed il resto della frutta secca a parte.

Testo e foto di Annalena De Bortoli

bibliografia:
– Apicio, Manuale di gastronomia, ( c.a 400 d.C), traduzione Adriana Bertozzi, Rizzoli, 2009, ISBN 978-88-17-02977-3
– Gianbatista Baseggio, Celio Apicio, delle vivande e condimenti ovvero dell’arte della cucina. Volgarizzamento con annotazioni, G. Atonelli Editore, Venezia, 1852
– Claudio Benporat, Storia della Gastronomia Italiana, Mursia, 1990, EAN 9788842507505
– Albetto Capatti, Massimo Montanari, La cucina italiana. Storia di una cultura, Laterza, 1999, ISBN 88-420-5884-X
– Jean-Louis Flandrin e Massimo Montanari (cura), Storia dell’alimentazione, Laterza, 1997, ISBN 88-420-5347-3
– Gruppo Archeologico Ambrosiano, Nutrire l’impero romano. La filiera alimentare nell’antica Roma, gli approvvigionamenti, le ricette, Mursia, 2016, ISBN 978-88-425-5751-7.

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