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Negli articoli degli scorsi anni si è discettato di pasta matta e delle sottili differenze tra lo strudel trentino e quello altoatesino, e di variazioni dolci sul tema come lo strudel di zucca e noci pecan ma pure dello strudel salato, che a Trieste chiameremmo “strucolo”, con ricette fantasiose tipo branzino e carciofi o con verza e speck, ma non ci siamo ancora chiesti da dove viene lo strudel e perché si presta a tante interpretazioni differenti, sia classiche che creative.

Siamo abituati a considerarlo una specialità mitteleuropea infiltratasi nell’Italia nordorientale, e così è stato negli ultimi due secoli, ma le sue origini sembrano risalire addirittura all’VIII secolo a. C., quando un dolce destinato alla corte dell’imperatore assiro Assurbanipal viene descritto in un testo di cucina mesopotamico come una composizione a strati di noci tritate, miele e sottili sfoglie di pane non lievitato.

Dolci simili si trovano poi anche nella antica tradizione greca, come una torta di noci detta gastris citata in un documento del III secolo a. C., e nella cucina bizantina, poi ereditata da Ottomani e Turchi, ad esempio come il güllaç, un dolce di sfoglia bagnata nel latte e servito con noci e melagrana.

Questo piatto è descritto in un testo di cucina salutare di un medico turanide che viveva alla corte mongola nel 1330 d.C. e Quello turanide (o Turk o Türük o Turkic) è un ampio ceppo linguistico-culturale che comprendeva molte popolazioni dell’Asia centrale dalla Siberia all’Europa dell’Est: Kazachi, Uzbechi, Iraniani, Afghani, Cinesi delle regioni occidentali, Russi, Moldovi, Bulgari Turchi, le cui cucine in fatto di dolci racchiusi in sfoglie sottili hanno molti tratti in comune.

E grazie ai costumi comuni dell’etnia turanide, ai viaggi dei mercanti Arabi e dei viaggiatori lungo la Via della Seta, questa tipologia di dolciumi si è diffusa dalla Mesopotamia (l’odierno Iraq) fino alla Turchia, assumendo in ogni epoca ed in ogni luogo forme e nomi diversi.

Parente strettissimo del nostro strudel è ad esempio il baklava “perfezionato” nelle cucine di corte turche del Topkapi, una serie di strati di pasta phyllo (versione greca, trascritta spesso come fillo fillo o yufka (versione turca) e frutta secca, incisi a losanghe, cotti in forno e imbevuti di sciroppo, di cui esiste anche una versione arrotolata a piccolo sigaro sottile come un dito.

In entrambe le lingue il nome della sfoglia significa “foglia”, a sottolinearne proprio lo spessore quasi impalpabile.
Gli ingredienti base di questa sfoglia sono sempre acqua, farina e un poco di grasso, come la pasta matta che avvolge lo strudel mitteleuropeo e italiano (e che, come spiega Artusi: “si chiama matta non perché sia capace di qualche pazzia, ma per la semplicità colla quale si presta a far la parte di stival che manca in diversi piatti”).

Perché il baklava si trasformi in strudel, nel percorso tra Mesopotamia e Austria ci sono di mezzo le guerre ottomano-asburgiche che videro Ottomani turchi ed Impero Asburgico austroungarico contendersi i territori ungheresi tra il XVI ed il XIX secolo praticamente dal 1526 al 1791, con strascichi e rivalità anche fino a tardo Ottocento.

I continui contatti tra le due culture portarono inevitabilmente anche allo scambio gastronomico, tanto è vero che l’Ungheria, che rimase sotto diretta dominazione ottomana dal 1526 al 1699, in due secoli assorbì moltissime tradizioni e ricette turche. Tra cui il baklava.

Gli Ungheresi preferirono la versione arrotolata, ne ampliarono il formato da bocconcino a unico grosso dolce, tralasciarono la dolcezza aggiuntiva degli sciroppi e cominciarono a sperimentare sfoglie sottili (la ricetta casalinga ungherese prevede strutto come grasso, uovo ed un pizzico di aceto nell’impasto) e farciture differenti con i loro prodotti locali, che comprendevano certo le noci, ma anche mele, castagne, semi di papavero, prugne, amarene, albicocche, uva passa e formaggina.
Da qui nascono molti dolci tipici ungheresi come i beigli (il cui nome significa “piegato”) e le rétes, il vero e proprio “strudel ungherese”, ma anche specialità salate a base di zucca, rape o cavoli.

Con il ritorno dell’Ungheria sotto l’ala dell’Impero Austriaco a fine ‘700 il dolce arrotolato venne conosciuto anche a Vienna, dove fu denominato strudel ovvero “vortice” e fu preparato secondo il gusto dell’Imperatore, che voleva una sfoglia talmente sottile da poterci leggere attraverso una lettera d’amore!

Ben presto lo strudel entrò ufficialmente a far parte della tradizione gastronomica austriaca, con le opportune varianti locali: l’Apfelstrudel viennese con mele e uvetta, il Topfenstrudel di Osttirol e Carinzia che aggiunge alla farcia del viennese panna e formaggio, lo strudel tirolese alle ciliegie, quello styriano con uva e mandorle, quello di Ebensee farcito di pane ammollato nella panna acida, uova e uva passa…

La forma arrotolata affascinò cuochi e golosi dell’epoca anche in versione lessata, per cui si preferivano farciture salate, e la tradizione vuole per lo strucolo ed i suoi parenti stretti un ripieno di formaggio fresco ed erbe, comune alle culture europee ma anche, curiosamente, a quelle mediterranee e mediorientali, e poi infinite farce salate di vario tipo.

Se la forma arrotolata attorno ad ingredienti balcanici, mitteleuropei ed alpini è relativamente “recente”, ricordiamo che l’idea di farcire una pasta è antica. Pensiamo ad esempio i mercanti sulla Via della Seta che attraversavano l’Asia nel Medioevo, che racchiudevano il loro cibo in gusci di pasta cotti sul fuoco degli accampamenti per conservarlo e trasportarlo meglio.

E ricordiamo i cuochi di corte rinascimentali in Europa, che producevano eleganti pastelli e pasticci di pasta farciti di qualsiasi cosa, senza grande distinzione tra dolce e salato, così descritti da un cronista dell’epoca: di così fatti miscugli torte e tortelli ne facciamo. Le torte cociamo o ne’ forni a sopra suoli di rame stagnato col loro coperto, e i tortelli friggiamo in olio, e senz’altro, o vero con un poco di mèle sopra, gli mangiamo.

Al di là del flusso della storia, quante specialità di tutto il mondo sono racchiuse in involucri di pasta, per poi essere lessate, cotte al forno, dorate in padella o fritte? Dai borek turchi ai ravioli italiani, dai brick a l’oeuf tunisini agli involtini primavera cinesi, dai samosas indiani alle empanandas argentine, e, per tornare al tema di partenza, dagli štrukli della ex Jugoslavia allo strucolo del Carso.

Per rimanere nei confini italiani o quasi, tra tradizioni triestine, istriane, carsoline, slovene e croate si vedono strucoli ripieni di ricotta e spinaci conditi col sugo d’arrosto, strucoli di patate e pane rosolato, strucoli di carni cotte e prosciutto o salsiccia, di funghi pancetta e panna acida, di cervella, di cardi, di miglio o grano saraceno, di zucca e semi di papavero, di pollo e cetriolini, e pure piccoli fagottini lessati e serviti in brodo o in minestre alla panna e alla paprika. Un piccolo mondo di sapori ed idee rinchiusi in una spirale di pasta, che ha attraversato i secoli ed i continenti per potersi definire, in fondo, una “specialità locale” di mezzo pianeta!

Oggi il Calendario propone la reinterpretazione della prima ricetta di strudel documentata in Austria, che risale al 1696, è salata, lessata e … a base di rape!

lo strudel
STRUCOLO DI RAPE E FORMAGGIO CON SALSA DI CIPOLLE

per 6 persone
per la sfoglia

150 g di farina tipo manitoba
20 g di burro morbido
1 pizzico di sale
1 macinata leggera di pepe bianco

per il ripieno

450 g di rape
1/2 cipolla
10 g di radice di rafano fresca (o 1 cucchiaiata di cren)
100 ml di panna acida
1/2 bicchiere di latte
20 g di formaggio stagionato di pecora, grattugiato
15 g di burro
pepe bianco al mulinello
sale

per cuocere

3 o 4 l di brodo vegetale leggero
1 rondella sottile di rafano

per la salsa

1/2 cipolla
15 g di burro
300 ml di brodo vegetale leggero
160 ml di panna acida
1 cucchiaio di farina
1 cucchiaio di formaggio stagionato grattugiato
1/2 cucchiaio di senape in grani
sale
pepe bianco al mulinello

Per la sfoglia setacciate la farina con il sale e il pepe, impastatela con il burro in punta di dita fino a incorporarlo, quindi versate a filo 50 ml di acqua calda e lavorate con energia l’impasto fino a che è liscio e asciutto, eventualmente aggiungendo poca acqua o farina per ottenere la giusta consistenza. Lasciate riposare l’impasto un’oretta sotto una ciotola capovolta.

Per il ripieno sbucciate le rape e tagliatele a dadini; tritate finemente la cipolla; grattugiate il rafano sbucciato con la grattugia a fori grossi (attenzione agli occhi: il suo profumo è pungente!) e mescolatelo alla panna acida.

Sciogliete il burro e fatevi saltare le cipolle per un paio di minuti; unite le rape e lasciatele colorare leggermente su tutti i lati.

Salate, unire mezzo bicchiere di latte e mezzo di acqua, coprite, abbassate il fuoco e lasciate stufare per circa 40-45 minuti, fino a che le rape sono morbide ed il liquido tutto assorbito. Regolate di sale e pepe e lasciate raffreddare.

Stendete la pasta su un telo ben infarinato in una sfoglia quadrata da 30 x 30 cm, sottile circa 2 mm. Intanto portate a bollore in una pesciera il brodo con la rondella di rafano sbucciata.

Mescolate alle rape la panna acida ed il formaggio, pepate a gusto, distribuitele sulla sfoglia lasciando circa 2 cm liberi sui bordi, poi ripiegate sul ripieno 3 bordi della sfoglia e arrotolate lo strucolo verso il lato libero aiutandovi con il telo.

Avvolgete il rotolo in un ampio tovagliolo bianco, legatelo alle estremità a caramella e fate un paio di giri di refe da cucina anche sul corpo dell’involto. Immergetelo delicatamente nel brodo bollente e lasciate cuocere sobbollendo per circa 30 minuti.

Intanto per la salsa tritate finissima la cipolla e stufatela nel burro fino a che è trasparente; unite quindi la farina e la senape e lasciate tostare un minuto.

Versate sulla farina il brodo tiepido, salate leggermente, se serve, e lasciate cuocere la salsa per una decina di minuti, fino a che diventa cremosa; unite quindi la panna acida ed il formaggio, amalgamate bene e regolate di sale e pepe.

Scolate lo strucolo, tagliatelo a fette spesse 1,5 cm circa e servitelo ben caldo, insieme con la salsa e una leggera spolverata di pepe.

Annalena De Bortoli

Bibliografia

– AAVV, Austrian Pastries and desserts, Fleishmann Mair, 1996, ISBN 3-87051-810-3
– AAVV, Croatian Cuisine. The modern way, Golden Marketing, 1995, ISBN 953-6168-10-3
– Pellegrino Artusi, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, III edizione 1894, Ristampa Giunti, 1991, ISBN 88-09-00385-3
– Najmieh Batmanglij, New Food for Life. Ancient Persian and Modern Iranian Cooking and Cerimonies, Mage, 1992-2002, ISBN 0-934211-35-5
– Giacomo Castelvetro, Brieve racconto di tutte le radici, di tutte l’erbe e di tutti i frutti che
crudi e cotti in Italia si mangiano. Con molti giovevoli segreti (non sensa proposito per dentro esso scritti) tanto intorno alla salute de’ corpi umani quanto ad utile de’ buoni agricoltori necessari, in Londra, MDCXIV (ristampato in Gastronomia del Rinascimento, Strenna Utet 1974)
– Mady Fast, La cucina Istriana. Storia e ricette, Lit, 1990-2013, ISBN 978-88-6710-055-2
– Anikó Gergely, Ungheria. La cucina tra Oriente e Occidente, Könemann, 1999, ISBN
3-8290-4582-4
– Claudia Roden, La cucina del Medio Oriente, Vallardi, 1989, ISBN 88-11-92690-4

 

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