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Contaminazioni, influenze, storia e cultura caratterizzano da sempre le nostre abitudini alimentari.

Come e perché nasce un piatto? Qual è il rapporto con la storia e le tradizioni?

Come tutti i metodi culinari molto diffusi, l’origine di questa preparazione si perde nella notte dei tempi.  L’agrodolce è un sapore antico che narra non solo la storia e la gastronomia ma anche il concetto filosofico del culto Zoroastriano per cui l’uomo deve ristabilire l’equilibrio delle energie cercando l’unione di Sole e Luna, chiaro e scuro, dolce e aspro, caldo e freddo,  che bilancino il dualismo tra bene e male, tra menzogna e verità.

Fin dall’età romana l’agrodolce rappresenta una costante di lungo periodo della storia del gusto, giustificata appunto  anche sul piano dietetico dalla logica del “temperamento per opposti” e della commistione di sapori. I medici latini dicevano che “i contrari si sanano con i contrari” e anche in cucina era indispensabile realizzare un equilibrio, ogni alimento andava accostato con un alimento di qualità opposta, per compensare la natura di ogni cibo.

I documenti che ne fanno cenno per primi sono arabi. Nell’antica Persia l’uso  del succo fermentato della melagrana, consueto ancora oggi,  era già conosciuto,  è persiano il termine sikbâg  (eskibech) da cui proviene il termine   “scapece”  (o scabeccio) la marinata calda di zucchero e aceto o succo di limone usata per le fritture, soprattutto  di pesce. Il contatto con la cultura araba ha quindi  avuto un certo peso nel recupero (o più semplicemente nella conservazione) del gusto agrodolce, e  porta nella cucina l’uso di agrumi e zucchero di canna che, sostituendo l’aceto e il miele, rende più morbido e delicato il contrasto agrodolce.

In questa storia si intravvedono fasi diverse, territorialmente e culturalmente ben definite, in alcune aree e in Italia particolarmente,  la progressiva affermazione di un sapore (il dolce) rispetto all’altro,  mentre altrove è il contrario (in Francia per esempio).  Dal Medioevo in poi la gamma dei prodotti utilizzati per comporre l’agrodolce si articola in modo più complesso rispetto alla cucina dei Romani, incentrata sulla coppia miele-aceto. Si aggiungono via via prodotti nuovi, a rafforzare e modificare in parte la componente acida.  Si sviluppa la produzione di Agresto (ottenuto dal succo d’uva acerba), agrumi (tutti agri, come suggerisce il nome, l’arancia dolce infatti arriverà solo nel Quattrocento), succhi di frutti per loro natura agrodolci ( melagrana). Il dolce, per vari secoli, continua ad essere ottenuto come in età romana, col miele, i datteri, l’uva passa.  Ma mentre il gusto agro attraversava la cucina di tutti i ceti sociali, il dolce era percepito quasi come un privilegio di classe. Gli agrumi importati dal Sud o dalla Riviera non erano certo alla portata di tutti ma non c’era contadino che non disponesse di aceto, viceversa lo zucchero (se non il miele) era alla portata di pochi, e tale doveva rimanere, per rimarcare, al pari di tante altre cose, le differenze di classe.  E intanto la cucina povera riusciva a vincere la fame: scopriva come fermare il corso del tempo conservando più a lungo i cibi.

Nel corso del ‘600 il gusto agrodolce fu messo in secondo piano, quando la supremazia della cucina francese impose il criterio di distinzione netta fra il dolce e l’aromatico e oggi si tende, grazie alle regole dettate da quella piccola “rivoluzione” avvenuta in Francia, a identificare i sapori, il dolce dall’amaro, dal salato, dall’agro o dal piccante, cercando di tenere distinto ciascun ingrediente.

Parlando di cucina e di tradizione,  possiamo sicuramente affermare che  molto, moltissimo  è  frutto di contaminazioni.  Percorsi naturali che ci hanno portato fin qui, la nostra tradizione gastronomica è ricca di ricette agrodolci.

Pensiamo a un connubio di sapori contrastanti, dolce/salato,   zucchero/aceto   e  troviamo la caponata di melanzane, vero caposaldo della cucina siciliana,  i tortelli di zucca  del mantovano il  cui ripieno è un  insieme di  zucca,  mostarda di mele,  amaretti e parmigiano, le sarde in saor veneziane,  la mostarda di Cremona, senza dimenticare le verdure e  le salse agrodolci, che esaltano il sapore dei cibi e sostengono gusti decisi come quelli di capriolo, lepre, cinghiale e selvaggina da pelo in genere.

L’agrodolce  è, nelle sue varie e complesse articolazioni, una categoria molto longeva, sopravvissuta nei secoli, tessera di quel mosaico policromo  che è il nostro e patrimonio gastronomico.

Peperoni in agrodolce

Per 4 persone

4 grossi peperoni (gialli e rossi)

1 spicchio d’aglio

1 ciuffo di basilico

4 cucchiai aceto rosso

1 cucchiaio di zucchero

1 pizzico di sale

Olio e.v. d’oliva q.b.

Lavate e mondate i peperoni, eliminate semi e filamenti interni e riduceteli a tocchetti regolari.

In una larga padella scaldate un poco di olio d’oliva insieme allo spicchio d’aglio, lasciate che imbiondisca poi unite i peperoni tagliati,  abbondante basilico e  fate rosolare qualche minuto a fuoco allegro in modo che si insaporiscano,  sfumate con l’aceto,   salate e  coprite subito il tegame abbassando il fuoco al minimo.

Lasciateli cuocere ancora per circa quindici minuti  senza aggiunta di acqua o altro liquido,  poi spolverateli con  il cucchiaio di zucchero, mescolate il tutto e portate a cottura a fuoco  dolce.

Serviteli ben caldi.

 

Testo, ricetta e foto di Giuliana Fabris

 

 

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