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Ci sono versioni contrastanti sull’origine della parola “jota”  per alcuni  sembra derivare da un suffisso celtico poi contratto dal tardo latino jutta, (nel senso di brodaglia), altri pensano che derivi  da yot, un  termine cimbro (un idioma di origine germanica, diffuso in veneto e trentino).

La prima attestazione della  jota in Friuli risale al 1432: se ne parla nei quaderni cividalesi  della Confraternita dei Battuti dove viene ampiamente nominata  ( fa uno buino iottho  cun forment, favo, chiar di purçiel e altris chiosis” fa una buona jota  con fumento, fave, carne di maiale e altre cose). Nel secolo successivo troviamo la jota nei versi di Nicolò Morlupino,  la minestra appare poi in un “Canzoniere” friulano del primo Cinquecento documentato  a cura della Società filologica friulana nel 1984.

Ma è nel corso dell’Ottocento che le testimonianze sulla jota si moltiplicano e ne fa  cenno il Vocabolario friulano dell’abate Pirona  il quale nel 1871 la chiama “broda”  facendo intendere che fosse nota in tutto il Friuli, mentre il Lunario Austriaco per la Gioventù del 1891 asserisce che la brùada  (brovada, rape messe a macerare nella vinaccia di vino rosso) può essere mescolata come  del resto il craut, alla minestra di fagioli  e prende il nome di jota. Ma  è il libro “La vita in Friuli”  di Ostermann edito nel 1894 che fa espresso riferimento alla jota carnica e ne descrive gli ingredienti con dovizia di particolari. Zucca, farina, erbe, grani freschi, mais e fagioli posti a bollire in molta acqua e poco latte). In quella carnica la  brovada è quindi  un elemento indispensabile per preparare  bene questa minestra alla quale regala un sapore gradevolmente acidulo e  in cui, alla fine,  si aggiunge farina gialla finchè tutto prende la consistenza della farinata.

Questa è la jota che si può trovare quasi esclusivamente nelle valli di Gorto e in Val Pesarina. Ma la jota è praticamente nota da Forni Avoltri fino a Rijeka/Fiume.  Conosciuta ai più come un piatto tipico della Carnia e di Trieste, in realtà era di tutto il Friuli e di tutta l’Istria.

Nata sicuramente come un piatto di recupero, un po’ di fagioli, un po’ di cavoli,  qualche avanzo di maiale e ne risultava un piatto che riusciva a sfamare la famiglia.

Ingredienti semplici e poveri e soprattutto legati alle zone. Patate e capuzi garbi (cavolo cappuccio tagliato a listarelle e lasciato fermentare in salamoia) a Trieste dove i triestini vantano di aver elaborato il metodo di acidificazione sin dai tempi di Carlo Magno.

Ma non si può parlare di una specifica paternità della Jota, né si può dire quale sia  quella vera.

Probabilmente non esiste una “vera jota” perché tutte le “jota” sono vere. La gente era obbligata a farla con quello che aveva a disposizione, ed effettivamente  in quasi tutte ci sono i fagioli, in alcune compaiono le patate e il mais, in altre  l’orzo  ma sicuramente prima di Colombo le ricette erano diverse, al posto dei fagioli prima del Cinquecento ci saranno stati i fagioli dall’occhio o le fave.

Se facciamo un confronto con la jota triestina “classica” non troveremo grosse differenze con la jota istriana, o con quella goriziana. Si tratta sempre di fagioli, patate, capuzi garbi, costine di maiale. Si potrà disquisire a lungo ma la base è quella. La  differenza con la jota  Carnica sta nell’aggiungere la brovada  probabilmente per  un fatto ambientale, in quelle zone era più facile averla  a disposizione anziché i seppur conosciuti crauti.  Ovvio che fosse un cibo per le classi sociali meno abbienti e via via che si radicava nelle cucine di casa e nelle bettole si cominciò  ad usare aromi e sapori. Entrarono allora nel pentolone  l’aglio,  l’alloro, il cumino. Ma restava  pur sempre un cibo misero, da poveri.

Se à di vanzâ, ch’ a  vanzi la jote     cioè la pietanza meno gradita,   a testimoniare di come  fosse sinonimo  di estrema povertà.

Che la jota sia uno dei simboli culinari di una grande città, e per giunta di mare, significa che le sue radici  sono ben piantate in una terra  dove crescono  cavoli capucci,  fagioli e porcelli.

È naturale, quindi, che anche nella cultura popolare triestina giochi un ruolo importante.  Se sulle montagne della Carnia significa povertà, a Trieste è amata e valorizzata.

Jota è sinonimo di cibo, di pasto, e il dialetto triestino è ricco di simpatici esempi,  “andemo a jota” andiamo a  mangiare,  “bisogna pensar pa la jota” bisogna pensare al cibo, alle necessità più strette.

Concludendo, dalla Carnia all’Istria da cibo per poveri la jota è diventata l’emblema gastronomico di una grande città.

Jota

Per 6/8 persone

  • 250 g fagioli scuri
  • 250 g patate
  • 250 g cavolo cappuccio acido (capuzi garbi)
  • 2 cucchiai farina
  • 1 foglia di alloro (a piacere)
  • 300 g costine di maiale affumicate o un osso di prosciutto
  • Poco olio
  • Aglio, sale, pepe

Fate bollire  le costine di maiale affumicate, o l’osso di prosciutto, con le patate e  i fagioli precedentemente ammollati, partendo da acqua fredda. Una volta cotti, passate metà dei fagioli e due o tre pezzi di patata.

Separatamente fate bollire il cavolo cappuccio coperto d’acqua a filo fino a quando questa  si è completamente asciugata.

Preparate un soffritto con olio e farina, lasciandolo scurire bene, aggiungete anche uno spicchio d’aglio schiacciato.

Unite il cavolo cappuccio ai fagioli e patate e fate riprendere il bollore, dopodiché unite il soffritto di farina e mescolate in modo che non si formino grumi. Portate a cottura.

Questa minestra acquista maggior sapore se lasciata riposare almeno tre ore.

 

Testo di Giuliana Fabris

Ricetta da Accademia italiana della Cucina – La cucina tipica triestina

Foto da IL Cucchiaio D’Argento

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