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Raccontano i figli dei macellai di Roma nati negli anni ’60 quando da piccoli con i loro padri andavano a Testaccio, in una delle tantissime trattorie nate e cresciute all’ombra del Mattatoio e scomparse con la sua chiusura, per mangiare la coda alla vaccinara. Seduti ai tavoli con la tovaglia di carta con il grande tovagliolo legato al collo aspettavano quasi con ansia i pesanti piatti bianchi colmi di rigatoni al pomodoro profumato di sedano dove troneggiavano due rocchi di coda grondanti  di sugo pronti per essere presi con le mani e spolpati con religiosa attenzione. Perché non c’è un modo diverso di mangiare la coda se non sporcandosi  le mani e non importa se a mangiarla è un bambino di 7 anni, un operaio, il funzionario della banca oppure un cardinale.

La coda alla vaccinara deve il suo nome ai vaccinari, detti anche scortichini, coloro che svolgevano nel  Mattatoio il lavoro durissimo  e faticoso di scuoiare  le carcasse degli animali mentre una parte della loro paga consisteva nelle parti meno pregiate delle bestie, il cosidetto quinto quarto di cui la coda è considerata regina. Con il tempo, invece di portare la carne a casa, a volte anche lontana, hanno preso abitudine di lasciarla nelle cucine del quartiere  dove erano ben disposti a garantire un pasto caldo e nutriente non solo ai poveri vaccinari ma anche agli altri osti della trattoria (commercianti, negozianti, impiegati).

Da queste cucine come anche da quelle umili degli operai è uscita, sempre nel corso dei decenni, la ricetta della coda alla vaccinara come la conosciamo adesso: una lunghissima e lentissima cottura con un battuto di lardo, gli odori,del vino bianco, pomodoro, i tocchi di sedano. Nelle cucine delle persone ricche e dalle cucine di cosidetta Roma papalina usavano fare quello che spesso nella storia veniva fatto: aggiungere qualche ingredientie raro e costosissimo per distinguersi dalla plebe pur gustando gli stessi piatti gustosissimi e succulenti. Ed ecco l’aggiunta dei pinoli, dell’uvetta e niente di meno che del cioccolato! Ma non vuol dire in nessun modo che una variante è più originale dell’altra: sono tutte e due altrettanto giuste e autentiche e nessuno è più cattolico del Papa!

La ricetta è quella del ristorante romano “Checchino dal 1887”, considerato il tempio della coda alla vaccinara:

Per 4 persone.
Tempo: 45 minuti di preparazione, 4-5 ore di cottura.

Ingredienti
Una coda di bovino adulto tagliata in pezzi di circa 5-7 cm di spessore
50 g di lardo
1 dl di olio extra vergine d’oliva
1 cipolla dorata tritata
2 spicchi d’aglio
2 chiodi di garofano
200 ml di vino bianco secco dei Castelli Romani
1,5 kg di pomodori pelati
500 ml circa di acqua bollente (o brodo)
Sale
Pepe
150 g di coste di sedano bianco
20 g di pinoli
20 g di uva sultanina ammollata in acqua

In un tegame con fondo spesso e bordi alti fate soffriggere il lardo con l’olio. Unite i pezzi di coda e rosolateli da ogni lato. Aggiungete poi la cipolla tritata, gli spicchi d’aglio, i chiodi di garofano, sale e pepe. Lasciate dorare per qualche minuto, quindi bagnate con il vino e fate evaporare lentamente chiudendo il tegame con il coperchio. Dopo un quarto d’ora aggiungete i pomodori pelati tagliati in pezzi e lasciate cuocere ancora quindici minuti. Unite l’acqua (o brodo) bollente nella quantità sufficiente a ricoprire tutti i pezzi di coda. Chiudete con il coperchio e lasciate cuocere a fuoco dolce per 4 ore o finché la carne sia così tenera da staccarsi dall’osso, aggiungendo un poco di acqua di tanto in tanto se necessario.
A fine cottura, lavate le coste di sedano, privatele dei filamenti esterni e tagliatele in pezzi di 10 cm di lunghezza. Sbollentatele per 5 minuti in acqua salata. Scolatele e fatele insaporire in un tegame a parte con 300 g del sugo di coda, aggiungendo anche i pinoli e l’uvetta e lasciandole cuocere per 5 minuti. Unite questa salsa di sedani ben calda alla coda al momento di servire.

 

Articolo di Marina Bogdanovic

Foto di Tamara Giorgetti e Giovanna Lombardi

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