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Pellegrino Artusi

Ho scoperto gli stricchetti leggendo l’Artusi, per la precisione alla ricetta n. 51, perché in Emilia non mi è mai capitato di assaggiarli, nonostante lui li definisca tipici bolognesi: chissà se si tratta di un formato di pasta dimenticato per la apparente complessità tecnica, per qualche strana ragione della moda gastronomica o per la difficile riproducibilità a livello industriale, O magari gli stricchetti non sono affatto scomparsi ma semplicemente poco conosciuti dai ristoratori odierni…

Rispetto alla classica sfoglia emiliana all’uovo, il suo impasto contiene parmigiano ricorda un po’ gli cialatielli napoletani però si tratta di un formato di un secolo più recente, inoltre Pellegrino Artusi viaggiò pochissimo nel Sud Italia e a Napoli fu solo due volte. A Bologna, invece, aveva sempre avuto grandi conoscenze, sia per motivi commerciali (nella prima parte della sua vita fu infatti un capace mercante) che per viaggi legati alla nostalgia della sua zona di origine dopo che, trentenne, da Forlimpopoli si era trasferito a Firenze.

Al termine della ricetta degli stricchetti dice: “Se questa minestra vi piace, siatene grati ad una giovane simpatica bolognese, chiamata la Rondinella, che si compiacque insegnarmela.” Tutto il suo testo, in effetti, è farcito di aneddoti e ricordi: sono accenni a viaggi, episodi e persone che hanno riempito la sua vita di colto autodidatta, scapolo (ma sentimentalmente impegnato… perchè Pellegrino non era proprio single. Racconta infatti che: “il caso volle che incontrassi l’amicizia di una signora molto per bene, quasi concittadina, a cui fui costante e affezionato amante per circa trent’anni, cioè fino al giorno della sua morte”), benestante, appassionato di scienza e di letteratura con il pallino per la cucina. Sono le esperienze che gli hanno permesso di scrivere un testo che lo ha reso immortale.

La storia è andata così: abituato a raccogliere con ordine appunti e corrispondenza, un po’ per l’esperienza di commerciante un po’ perché così aveva fatto per il materiale servitogli a scrivere i suoi primi libri su Foscolo e Giusti, Pellegrino comincia per diletto a ordinare con cura i foglietti di ricette che vuole farsi preparare dal suo cuoco o dalla sua governante.

Prende gusto alla cosa e, quando arriva non solo ad averne catalogate centinaia ma anche ad averle tutte sperimentate e corrette nella sua cucina, decide che potrebbe avere un senso pubblicarle in un manuale, condendole con le proprie conoscenze scientifiche e nutrizionali e con le sue esperienze di viaggio alla scoperta di specialità locali. Non scordiamoci che fino a pochi anni prima quello che noi oggi consideriamo regionale si riferiva invece a diversi Stati e che quando pubblica la prima edizione solo da trent’anni si apparteneva formalmente tutti ad un’unica nuova nazione italiana, all’atto pratico ancora tutta da costruire.

Pellegrino si studia quindi una lingua non dialettale anche per i termini che descrivono ingredienti, lavorazioni ed attrezzi, si premura di capire a fondo ogni passaggio e di riportarlo correttamente, pesa e misura ogni ingrediente, ma soprattutto infonde nel libro tutta la passione di un settantenne che, dopo aver assaggiato (per l’epoca) quasi di tutto, capisce che ha un senso divulgare in questo modo il suo sapere rivolgendosi a cuochi di casa, massaie “colte” (non tutti sapevano leggere…) e amanti del cibo, non a professionisti della cucina come era sempre stato per tutti i manuali dei secoli precedenti.

Rifiutato da diversi editori (lo racconta ironicamente nella prefazione dal titolo La storia di un libro che rassomiglia alla storia della Cenerentola) pubblica la sua opera a proprie spese e, dalla seconda edizione, vi stampa anche l’indirizzo di casa, sostanzialmente sede della inesistente casa editrice. Questo gli permette di entrare in contatto diretto con i lettori, che non solo gli scrivono a frotte per fargli i complimenti o chiedergli consigli, ma gli inviano anche ricette, ingredienti ed assaggi!

La sua volontà di aggiornare ogni edizione (ben quindici in venti anni!) con nuove ricette, che dalle 475 della prima uscita arrivano a 790 dell’ultima, deriva quindi non solo dalla sua abitudine a chiedere i segreti del piatto ad ogni cuoco di ristorante o di casa privata in cui mangia qualcosa che gli aggrada particolarmente, ma proprio dalla passione con cui interloquisce con chiunque voglia parlargli di cucina!

E accoglie e sperimenta tutto, pubblicando spesso le ricette che gli arrivano dai lettori ma anche da amici e conoscenti che, se non si erano ovviamente permessi prima di disquisire con lui di Foscolo o di Giusti, ora che lo sanno interessato ad una materia più alla portata di tutti, non mancano mai di invitarlo a pranzi speciali, segnalargli prodotti che hanno scoperto da poco, sottoporgli preparazioni in cui credono di essere riusciti bene.

Così se la Rondinella degli stricchetti è con tutta probabilità una cuoca o una popolana di cui assaggiò il capolavoro, il “signore veneziano” della torta frangipane n. 580 è un lettore sconosciuto con cui scambia numerose lettere: dapprima il gentiluomo veneziano, che oggi sappiamo chiamarsi Francesco Trevisanato, gli chiede numi sul lievito chimico (una novità poco diffusa), sul forno di campagna e sul basilico (attrezzo ed erba molto usati da Artusi ma sconosciuti a Venezia).

Poi domanda maggiori dettagli su alcune ricette del libro da lui riprodotte con piccole difficoltà, quindi gli spiega come si permette talvolta di modificarne alcune altre a proprio gusto, usando per esempio burro invece di olio, e in ultimo gli propone la ricetta della torta frangipane, dicendo che la preparazione di base era di un cuoco di famiglia ma, grazie alla pratica acquisita imparando dal libro, era personalmente riuscito a migliorarla parecchio.

Per la verità arriva persino a suggerirgli di introdurre un ulteriore indice organizzato per ingredienti, ma Pellegrino non segue il consiglio, forse perché comporterebbe ulteriori pagine quindi più costi di stampa oltre a quelli dovuti all’aumento delle ricette, mentre fino a che lui era in vita voleva che il prezzo di vendita del libro fosse sempre lo stesso: 3 lire!

Però pubblica la ricetta della frangipane e di certo, citandone la fonte, non solo avrà enormemente gratificato un lettore tanto affezionato, ma avrà pure invogliato altri a inviagli ricette e suggerimenti. La modernità di un atteggiamento di questo tipo, che a noi in epoca di continui scambi “social” sembra quasi normale, per allora era una vera rivoluzione letteraria e di costume e rivela non solo grande apertura mentale e curiosità, ma anche la totale assenza di supponenza e snobbismo, sia come persona che come autore.

Ammiro oltremodo la familiarità che sapeva raggiungere, sempre all’interno dell’elegante correttezza dei rapporti sociali dell’epoca, con le persone che arrivava a stimare, indipendentemente da ceto. Cosa che gli permise di avere rapporti davvero affettuosi anche con i suoi domestici, tanto è vero che in un’intervista del 1932 su La cucina Italiana, la sua domestica lo ricorda così: in casa “era un continuo alternarsi fra lo studio e la cucina, la penna e le pentole [… con] il suo cuoco, che gli voleva tanto bene. Io pure non lo lasciavo mai.” E, rispetto al suo modo di porsi in società commentava: “[era] tanto modesto, tanto semplice che voleva rimanere nell’ombra.”

Detto ciò, spero si capisca perché ho “l’Artusi” (inteso come libro, non come persona!) sul comodino e perché ogni tanto me lo sfoglio così, con il piacere di incontrare un vecchio amico che stimo e con cui condivido il gusto per la cucina. Del libro ho quattro copie, tutte ristampe di epoche diverse della quindicesima edizione; in cucina tengo la meno storica ma sul comodino ho quella che preferisco: è del 1958, con la dedica a mia madre da mia nonna, sua futura suocera, come regalo di fidanzamento!

Per questo per me Pellegrino Artusi è uno di famiglia, mi permetto di chiamarlo per nome e racconto di lui come persona più che come autore. Nell’articolo dello scorso anno mettevo in luce gli eventi della vita di Pellegrino Artusi che lo hanno più segnato, mentre oggi mi sono immersa nel suo modo di fare ricerca e di scrivere di cibo, che se ci penso bene, con strumenti e geografie diverse, nella pratica è un po’ anche il mio.

Il Calendario ha saputo interpretare lo spirito curioso del personaggio partendo nel 2017 da un contest a colpi di menù completamente artusiani e proseguendo negli anni successivi con menù e ricette varie tra quelli che il suo testo ha reso più famosi. Mi piace oggi invece rendergli omaggio citando la sua terra di origine, con una ricetta delle sue poco usata, come ennesimo esperimento nella infinita strada di apprendimento in cucina.

Vista la stagione non servo in brodo gli stricchetti, come suggeriva lui, ma con una salsa leggerissima a base di ricotta. E, pur lasciando parmigiano e noce moscata come da sue indicazioni, dalla sfoglia levo i tuorli e la preparo con soli albumi, secondo uno degli impasti casalinghi emiliani che fanno tesoro anche di qualsiasi avanzo.

Questa variante di sfoglia nasce infatti per riciclare i bianchi avanzati da altre preparazioni e resta molto bianca, perfetta dunque oggi per il gioco dei toni con il condimento, anch’esso bianco. Restiamo dunque in tradizione emiliana, anche se, in base alla località, a volte con il nome “stricchetti” in Emilia ci si riferisce non a questo fantasioso formato ma a delle piccole farfalle. I”doppi anelli”di oggi,invece, a causa della loro forma finale, sono anche chiamati “tortellini senza ripieno”… ecco perché propongo un condimento che, tenuto più sodo, è in realtà il ripieno dei tortelli bolognesi!

l'Artusi
STRICCHETTI ARTUSIANI IN VERSIONE BIANCA

per 4 persone
per la sfoglia

4 albumi (circa 120 g in tutto)
200 g di farina 00, più una manciata per la spianatoia
40 g di parmigiano grattugiato molto fine
noce moscata

per il condimento

200 g di ricotta
60 g di parmigiano grattugiato
1 piccolo spicchio di aglio
4 rametti di prezzemolo
2 cucchiai di olio extravergine
noce moscata
sale

Versate quasi tutta la farina setacciata sulla spianatoia, formate una fontana e cospargete con il formaggio e con una bella grattata di noce moscata.

Versatevi al centro gli albumi e sbattete con una forchetta, incorporando gradualmente tutta la farina (se serve meglio aggiungerne altra che trovarsi con troppa farina in partenza). Lavorate poi energicamente a mano l’impasto per qualche minuto, quindi coprite e fate riposare mezz’oretta.

Stendete la pasta in una sfoglia sottile e ritagliatela con la rotella dentata a rombi da circa 5 cm di lato. Ne escono una sessantina. Se sono molto morbidi lasciateli asciugare una mezz’oretta prima di riprenderli in mano.

Unite le due punte più vicine, quelle ad angolo ottuso, premendo bene per sigillarle, e poi le altre due dall’altro lato, formando un “doppio 8” che assomiglia ad un tortellino senza ripieno.

l'Artusi

Adagiate gli stricchetti pronti su un panno appena infarinato e portate a bollore l’acqua. Intanto per il condimento mescolate la ricotta con il parmigiano, il prezzemolo e l’aglio tritati finissimi, olio, sale e noce moscata.

Scottate gli stricchetti per circa tre minuti nell’acqua salata e scolateli delicatamente con un ragno per non schiacciarli.

Stemperate la ricotta con tanta acqua della pasta quanta basta per renderla bella cremosa, unitevi gli stricchetti, mescolate bene e servite.

Annalena De Bortoli

Bibliografia:
Pellegrino Artusi, Autobiografia, a cura di A. Capatti e A. Pollarini (prima edizione Il Saggiatore, 1993), Slow Food Editore, 1999, ISBN 978-88-862-8379-3
Pellegrino Artusi, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, (prima edizione 1891), Marzocco, 1958
Alberto Capatti, Pellegrino Artusi. Il fantasma della cucina italiana, Mondadori, 2019, ISBN 978-88-918-2457-8

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